Io non posso entrare

Una notizia di qualche giorno fa, che noto in particolar modo per l’argomento in questione e per il fatto che riguarda Roma, la mia città, racconta di un ristorante di una delle periferie est della capitale che ha deciso di vietare l’ingresso ai bambini di età inferiore ai cinque anni. I motivi si riconducono, suppongo, all’atteggiamento poco attento di alcuni genitori, che lascerebbero i propri pargoli nella libertà assoluta di disturbare il vicino di tavolo o di scorrazzare chiassosamente in ogni dove senza alcun controllo. Di fronte a questa notizia ho reagito esattamente come faccio quando mi trovo a che fare con qualcosa che di impulso non mi piace: l’ho ignorata. Poi però ci sono ritornata, mi sono documentata, ho guardato di quale ristorante si trattasse e cosa recitasse il monito in questione. La comunicazione, testualmente, dice questo:

 

A causa di episodi spiacevoli dovuti alla mancanza di educazione, in questo locale non è gradita la presenza di bambini minori di anni 5, nonché l’ingresso di passeggini e/o seggioloni per motivi di spazio. Certi della vostra comprensione, si ringrazia anticipatamente la gentilissima clientela.

 

Ho letto articoli in merito su diverse testate giornalistiche online. E devo dire che la cosa mi atterrisce e mi fa rabbia. Non mi piace cosa è scritto, le ragioni di un’elucubrazione dotata di quel vago ma inciso (non)senso discriminatorio, la scelta stilistica. Dire “non è gradita” non lenisce di certo il significato di un concetto che comunque resta di chiusura e di rifiuto, e che ci ricorda un vissuto storico del quale non andare propriamente fieri.

Ho letto e ascoltato i commenti di chi questa scelta la trova una virata verso la civiltà, un segno di progresso, un’emancipazione della quale eravamo sforniti, un esempio da seguire. E voglio, quindi, tentare di analizzare la questione discostandomi dalla mia emotività.

Penso con assoluta convinzione che esistano già “in natura” delle condizioni grazie alle quali si può non incorrere nella presenza di bambini, se così indigesta. O almeno parlo della mia personale esperienza: quando decido di andare a cena fuori, in genere mi trovo in un ristorante o in una pizzeria ad un orario nel quale di norma i bambini sono già a letto. Infatti, non ne incontro. Anche la scelta del ristorante di per sé genera a sua volta un’ulteriore selezione che consente di non trovarsi a che fare con dei bambini. Non dico che deve diventare una fatica immane fare la selezione accurata del luogo dove andare a mangiare e dell’orario perfetto per non trovarsi in una condizione di fastidio. Parlando di questo fatto specifico, dico che siamo a Roma-Italia-Europa-Mondo e che di alternative ce ne sono oltre il pensabile. In fondo, quando decidiamo cosa mangiare, non lo facciamo ponendoci delle alternative? Se sono vegetariano, sceglierò un ristorante e non ne sceglierò un altro: è così strano da capire?

Lasciamo che le scelte rimangano ampie, che ci sia la possibilità di accontentare chiunque, che non ci siano limiti all’immaginazione e alle varianti applicabili. Ci sono una marea di combinazioni che consentono di non avere a che fare con condizioni di disagio imprescindibile, perché non le scegliamo? Perché ci risulta sempre più semplice togliere una condizione, una scelta, un’opportunità a qualcuno invece che provare a girare l’angolo e vedere che proprio lì si trova ciò che fa per noi? Perché la coabitazione di generi in tutte le straordinarie diversità che ci rappresentano è perennemente un problema che non trova soluzione se non nella proibizione e nel divieto?

 

Non sono ancora una mamma e amo tantissimo in bambini. Non potrei non amarli come li amo, li reputo un importantissimo patrimonio sul quale investire, il solo miracolo che mi permetto di chiamare in questo modo. Ma non giudico chi non nutre la mia stessa passione, vorrei solo ci si ponesse di fronte una rosa di scelte che non passino da subito per i divieti.

Se penso che esistono aziende importanti (Ikea è la prima alla quale si pensa ma ce ne sono tantissime) che investono la loro immagine e la loro policy nel concetto di famiglia e di genitorialità, mettendo a disposizione spazi dedicati ai più piccoli con un semplicità che quasi disarma, mi rendo conto che ci sono delle vedute d’insieme che fanno la differenza, nel bene e nel male.

 

Non ho mai apprezzato il cane legato fuori da un supermercato: comprendo e condivido pienamente il perché lo si faccia (eh?) e lo trovo indiscutibile. Emotivamente, però, mi fa sempre una grande tristezza e mi ritrovo ogni volta a dispensare coccole al tenero animale che non ha occhi che per il padrone, affaccendato all’interno nel fare la spesa. So che con un minimo di organizzazione e di buon senso, in alcuni posti nei quali vengono venduti generi alimentari, si è consentito l’ingresso ai cani. Così come nelle spiagge. Tutto ciò mi sembra una costruzione verso qualcosa, un gradino in salita compiuto senza sforzo, un elevarsi per vedere meglio da lontano che l’orizzonte non è fatto solo da noi e dalle nostre necessità, che crediamo primarie. I divieti e i “non gradito” potrebbero diventare infiniti, applicati alle cose più disparate. Pensate che assurdità se io, con il mio metro e ottanta di statura, fossi stata mandata fuori da tutti i cinema della città. Come mi sarei sentita se in quei cinema degli anni novanta che ero solita frequentare, dove le poltrone erano disposte tutte su un unico livello, mi fossi trovata davanti a un cartello con su scritto “Per motivi legati alla buona visione del film da parte di tutti, in questo cinema NON È GRADITA la presenza di ragazze alte oltre il metro e settantacinque”? E se non fossi gradita in alcuni ristoranti perché non appena mi ritrovo sotto il naso un piatto con dentro alcuni legumi (i piselli, ad esempio) inizio a dimenarmi in espressioni terrificanti e a dire che puzzano e che non voglio vederli neppure alla distanza di sicurezza di un chilometro? Come mi sentirei? Le cose per me sono sempre andate come dovevano andare: a qualcuno sarà un venuto un torcicollo colossale nell’impresa di riuscire a vedere un film per intero dietro di me, e nei ristoranti ho divertito i commensali con le mie esternazioni prive di senso. D’altro canto, parlo di paradossi.

 

Mi auguro che il “non gradito” da parte del ristoratore che ha dato origine a questo mio post, non rappresenti una barriera architettonica per chi è affetto da mobilità ed è costretto ad avvalersi dell’uso della sedia a rotelle. Non conosco il suo locale, mi auguro che i problemi di spazio di cui parla non impediscano l’ingresso a tutte quelle categorie meno fortunate.

 

Mi piace concludere il mio punto di vista con un pensiero che rubo ad una chef che si è espressa sull’accaduto, e che trovo assolutamente in linea con la mia personale linea etica:

 

“È interessante vedere come in età adulta, quando si dovrebbe essere maturi, ci si dimentichi di essere stati bambini e che il futuro sia invecchiare”. 

(Iside de Cesare)

 

Audrey-Hepburn-la-mamma-vista-con-gli-occhi-del-figlio-nel-nuovo-libro

 

Photo Henry Clarke; © Condé Nast Archive/Corbis. Published by Harper Design, an imprint of HarperCollins Publishers; © 2015 by Luca Dotti.

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2 Commenti

  1. Postato 28/01/2016 at 4:59 pm | Permalink

    Ciao, io ti parlo dall’altro lato della “barricata” ovvero quello di chi lavora in ristoranti. Vieterei l’ingresso ai bambini dopo le 20:00. Bambini sino alle elementari. Il 90% dei genitori è rompiscatole circa l’alimentazione del figlio: ad esempio chiede di scaldare latte o pappe, di cucinare alimenti portati da casa (e non vuole mai pagare il coperto dei figli! ). Il 99% dei bambini è noioso, capriccioso, scatenato. Dopo mezz’ora i figli strepitano e i genitori rompono le OO al cameriere con domande “C’è da attendere molto? Sa, il bimbo ha sonno.”. Per non parlare di quel tipo di genitori che lascia scorrazzare senza ritegno i figli per la sala! Quindi: vuoi portare tuo figlio con te? Vai in un Fast-food o in una pizzeria kids-friendly. Lascia perdere i ristoranti e le pizzerie per adulti.

  2. Giusy
    Postato 28/01/2016 at 5:52 pm | Permalink

    Ciao, Antonella. Credo ci sia talmente tantissima scelta da dover essere considerata. Mi rendo conto che possono esserci delle difficoltà ma sai, quello che racconti è – ahimè – applicabile a tutta la categoria di servizi al pubblico. Mi spiego meglio: ho lavorato per molti anni in una grandissima catena di librerie, e posso assicurarti che il contatto con la gente non è semplice neppure in un contesto del genere. Persone che sbuffano nell’attesa del proprio turno all’info point, bambini lasciati a demolire intere campate di libri, signore sbruffone che sentenziano su come si confezioni un pacchetto. Limitare l’ingresso ad alcuni e vietarlo ai bambini, ad esempio, ci avrebbe permesso di salvare qualche scaffale ma non ci avrebbe consentito il piacere infinito nel vedere quei bambini composti – e ce ne sono molti, te lo assicuro – starsene lì buoni a lasciarsi leggere una fiaba dalla mamma o ad imparare le loro prime parole nell’ascoltarle. Se fosse per me, sarebbero mandati al di fuori della galassia i maleducati e gli inopportuni di qualsiasi età. Questo è certo.
    Grazie per essere passata di qui a lasciare il tuo pensiero.

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