Un’ostrica felice

Un’ostrica felice non produce perle

di Elisa Da Silva Guimarães

“Le ostriche sono molluschi, animali senza scheletro, molli, che rappresentano le delizie dei gastronomi. Possono essere mangiate crude, con gocce di limone, con riso, paellas, zuppe. Indifese – son animali miti- sarebbero una preda facile per i predatori. Affinché ciò non succedesse, la loro saggezza insegnò loro a fare delle case, conchiglie dure, dentro le quali vivere. C’era dunque sul fondo del mare una colonia di ostriche, molte ostriche. Erano ostriche felici. Si sapeva che erano felici perché da dentro la loro conchiglia usciva una delicata melodia, musica acquatica, come se fosse un canto gregoriano, cantavano tutte la stessa musica. Con un’eccezione: quella di un’ostrica solitaria che faceva il suo solo solitario. Diversa dall’allegra musica acquatica, lei cantava un canto molto triste. Le ostriche felici la deridevano e dicevano: “non esce dalla sua depressione…”. Non era depressione. Era dolore. Perché un grano di sabbia le era entrato nella carne e le faceva male, male, male. E lei non aveva modo di liberarsene, di questo grano di sabbia. Ma era possibile liberarsi dal dolore. Il suo corpo sapeva che, per liberarsi dal dolore che il grano di sabbia le provocava, a causa della sua rugosità, del suo bordo e delle sue punte, bastava avvolgerlo con una sostanza liscia, brillante e rotonda. Così, mentre intonava il suo canto triste, il suo corpo lavorava – a causa del dolore che il grano di sabbia le causava. Un giorno, passò di lì un pescatore con la sua barca. Lanciò la rete e tutta la colonia di ostriche, anche la sofferente, fu pescata. Il pescatore si rallegrò, le portò a casa e sua moglie fece una deliziosa zuppa di ostriche. Mentre si deliziava con le ostriche, i suoi denti batterono contro un oggetto duro che si trovava dentro un’ostrica. Lo prese tra le dita e sorrise di felicità: era una perla, una bella perla. Solo l’ostrica sofferente aveva prodotto una perla. La prese e la regalò alla moglie.

Questa è una verità per quel che riguarda le ostriche. Ed è pura verità anche per gli esseri umani. Nel suo scritto La nascita della tragedia greca a partire dallo spirito della musica, Nietzsche osservò che i greci, in opposizione ai cristiani, prendevano la tragedia seriamente. La tragedia era tragedia. Non esisteva per loro, come per i cristiani, un cielo dove la tragedia si trasformava in commedia. Egli si chiese dunque le ragioni per le quali i greci, essendo dominati da questo sentimento tragico della vita,  non hanno ceduto al pessimismo. La risposta che trovò fu la stessa dell’ostrica che produce la perla: non si consegnarono al pessimismo perché furono capaci di trasformare la tragedia in bellezza. La bellezza non elimina la tragedia, ma la torna sopportabile. La felicità è un dono che deve essere semplicemente goduto. Basta a se stessa. Ma non crea. Non produce perle. Son quelli che soffrono che producono bellezza, per smettere di soffrire. Questi sono gli artisti. Beethoven – come è possibile che un uomo completamente sordo, alla fine della sua vita, abbia prodotto un’opera che canta l’allegria? Van Gogh, Cecilia Meireles, Fernando Pessoa…”

 

Questo è l’estratto del libro che ti dicevo, di Rubens Alves. Una raccolta di spunti, di idee che per un motivo o per l’altro non hanno dato origine a libri, ma che l’autore ha alla fine pubblicato così… come una serie di riflessioni divise per categorie, tra cui amore, bellezza, bambini, vecchiaia, natura politica…

 

Ma questo testo, che è il primo e che da nome al libro, è meraviglioso. Quanta verità? Quando l’ho letto lo ammetto, ho pensato a noi, a te, a me, e pure ad Enrica Tesio, a tutte le persone che creano un qualcosa come terapia, come rimedio per buttare fuori quel granellino di sabbia, quel sassolino nella scarpa ahi che mi fa tanto tanto male… soprattutto a chi scrive, a chi usa le parole come “sostanza liscia, brillante e rotonda”.

Io è da un pezzo che scrivo, il mio diario ha compiuto 17 anni il mese scorso e tolti gli anni troppo bambini in cui scrivevo semplicemente la cronaca della mia giornata (che comunque era un modo per buttare fuori pensieri o emozioni che dentro mi stavano stretti) mi accorgo che gli scritti più belli, risalgono a momenti sabbiosi, o vi fanno riferimento nelle cronache esilaranti delle mie sfighe (in questa categoria includo gli scritti alle amiche, lettere, mail e quant’altro). Momenti in cui era solo un granello a rompere le scatole, momenti in cui la sabbia ce l’avevo ovunque. Negli occhi e non riuscivo a vedere chiaro. Nel naso e non riuscivo a respirare. Nelle orecchie e non riuscivo a sentire. In bocca e non riuscivo a parlare. Momenti in cui camminavo nelle sabbie mobili, momenti in cui ero sepolta fino al collo e certo, pure momenti in cui avrei voluto cacciare solo la testa sotto la sabbia, a mo’ di struzzo. Come i bambini che chiudono gli occhi e credono che tu non li veda più.

Però con la sabbia si fanno anche le battaglie in acqua, chi non si è mai divertito a farle? Ci si fanno le piste per le biglie, le macchine, mio fratello ci costruiva delle navi enormi! Ci si fanno mille castelli, castelli su cui scrivere per fantasticare o per costruire sulle macerie.

Oggi ho la vena da scrittrice per un granello di sabbia che fa male, per quanto piccolo. Perché certa gente la sabbia te la tira addosso a tradimento, ti da una mano a costruire un castello e poi si trasforma nel monello che la sera, quando chiudi il tuo ombrellone e vai a casa felice, arriva e ci salta sopra a piè pari. E tu il giorno dopo arrivi… e hai un motivo per creare qualcosa. Un nuovo castello, una muraglia cinese, un nonsocheminchiamaqualcosadevopurfare.

Però… diciamocelo… ma sta gente mettersi a creare per i cacchi propri e non sfrantecare le palle a noi? Mah…

 

 

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Deborah Jaffe – wedding table -

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