a cura di Giusy Celestini
In un pomeriggio di domenica, in una di quelle domeniche da trascorrere in casa sul divano con una copertina addosso e una tazza di tè fumante in mano, ho fatto la conoscenza di questa inedita (per me) fotografa attraverso un film documentario trasmesso da Rai5. In uno zapping, il mio, che non avrebbe concesso pietà a nessuno, sono stata catturata da delle immagini così forti nella comunicazione, nel desiderio di impatto visivo, così vere e così straordinariamente perfette (al mio occhio, certo, che non è un occhio tecnico) che non ho potuto non fermarmi per scoprire chi ne fosse l’autore. Il film era già iniziato da una ventina di minuti o forse più, quando io l’ho notato, quindi mi ci è voluto un po’ per entrare nel vivo della questione. Ma la potenza comunicativa di quelle foto era davvero oltremisura.
Ho scoperto così, per puro caso in un pomeriggio qualunque, Vivian Maier (il film in questione, che consiglio vivamente, è Alla ricerca di Vivian Maier, Feltrinelli Real Cinema). E considero questa un’indiscussa opportunità che ha aggiunto un tassello forte e importante alla mia ricerca di un senso, di una bellezza che si fa sostanza.
Di questa donna, nata nel 1926 a New York il cui passato è un turbinio di vicende apparentemente senza capo né coda e alla quale si attribuiscono origini francesi (nel film si parlerà spesso di quanto il suo accento fosse foriero di dubbi sulla sua reale nascita americana, in realtà confutata e certa), non si è avuta mai traccia. Fino al 2007, anno in cui un giornalista, John Maloof (23 anni), decide di scrivere un libro sulla città di Chicago e, accortosi di non avere sufficiente materiale fotografico a disposizione, recupera da un’asta un’enorme cassa malmessa pagata circa 380 dollari. Al suo interno troverà poi centinaia di negativi e decine di rullini da sviluppare. Darà vita a tutto questo materiale dimenticato e scoprirà di avere a che fare con una reale artista. Acquisterà le casse assegnate ad altri durante l’asta e inizierà una vera e propria ricerca sull’autrice sconosciuta, catalogando da principio ogni cosa a lei appartenuta e iniziando a cercarla tra chi l’aveva intravista malapena e chi l’aveva conosciuta. La scoprirà essere stata una bambinaia che negli anni cinquanta aveva prestato la sua collaborazione lavorativa a Chicago, Los Angeles e New York e che si dilettava nella fotografia con un’attività produttiva impressionante. Sono ben oltre centomila le foto che si possiedono di lei. Possiamo definirla una pioniera della street photography, con i suoi scatti pieni di un linguaggio fotografico ineccepibile e immediato, che punta a colpire in pieno stomaco, a stupire, a comunicare. Sono foto che raccontano, che parlano, quelle della Maier, che nascondono un’intenzione e una didascalia che vengono fuori a gran voce.
http://www.americansuburbx.com/series-2/v/vivian-maier-street-photographs
http://www.americansuburbx.com/series-2/v/vivian-maier-street-photographs
http://www.americansuburbx.com/series-2/v/vivian-maier-street-photographs
http://www.americansuburbx.com/series-2/v/vivian-maier-street-photographs
http://www.americansuburbx.com/series-2/v/vivian-maier-street-photographs
Utilizzava una Rolleiflex, macchina fotografica di cui ho conoscenze (solo) immaginarie attraverso i racconti dell’Uomo con la barba (mio marito), appassionato di fotografia ed esigente punto di vista in tal senso, che era solito guardarla con fascino in casa sua, da bambino. Suo padre la possedeva e oggi conserviamo delle foto della sua infanzia, scattate con quel prodigio rétro, assolutamente meravigliose.
Vivian Maier era solita fotografare la realtà per come era davvero, non di certo per come avremmo voluto fosse o per come ce la edulcoravano. Durante i suoi pomeriggi da tata, portava spesso i bambini nei quartieri più poveri della città, affinché imparassero a sentirsi per ciò che poi erano: dei privilegiati. Capitava anche che li accompagnasse in alcuni macelli, dove lasciava che prendessero atto che ognuno degli animali visti in quel momento dietro un recinto, sarebbe finito presto nel loro piatto.
http://www.vivianmaier.com/gallery/street-1/#slide-3
http://www.vivianmaier.com/gallery/street-1/#slide-3
http://www.vivianmaier.com/gallery/street-1/#slide-3
http://www.vivianmaier.com/gallery/street-1/#slide-3
Della Maier donna si sono scoperte diverse cose, grazie alle serratissime indagini di Maloof. Ciò che non sfugge guardando il film è che lei fosse una collezionatrice seriale e compulsiva, arrivando a conservare qualunque cosa possibile e inimmaginabile: dai quotidiani, che impilava in colonne così pesanti da arrivare a far sprofondare pavimenti di legno, ai biglietti del tram, dai ninnoli alle ricevute dei negozi. Non aveva alcun legame con la sua famiglia originaria, non ebbe mai figli né si sposò. Nutriva una smisurata avversione verso gli uomini in generale, e alcune informazioni sul suo conto lascerebbero intendere che possa esserci stata una presunta violenza subita, fisica e sessuale, all’origine di questo suo atteggiamento ostile.
Schiva, riservata, sola, decise di dedicarsi tutta la vita alla sua professione di tata, svolgendola senza alcuna ambizione, né celata né apparente, nascondendo come meglio poteva la sua grande passione per la fotografia, che le avrebbe conferito invece un ruolo di maggior prestigio (nonché una consistente serenità economica, della quale non godeva particolarmente) se solo avesse pensato di renderla nota al mondo.
Morì nel 2007, pochi giorni prima il rinvenimento da parte di Maloof del suo prezioso materiale. Alcune delle signore che la tennero a servizio, decisero di farla cremare e di cospargere le sue ceneri nel parco dove abitualmente portava i bambini il pomeriggio.
In seguito alla scoperta di John Maloof, le foto di Vivian Maier sono state esposte in diversi posti nel mondo, riscuotendo il doverosissimo successo. Ma ci si chiede, poi (se l’è chiesto lui e me lo sono chiesta anche io), se questo è ciò che la Maier avrebbe desiderato. La risposta più plausibile è ovviamente no, non è difficile supporlo. Eppure ci si sente davvero incapaci di non sovvertire le regole tacite stabilite con tanta esattezza dall’autrice. Tenere nascosta al mondo una tale dimostrazione di capacità, sapienza, delicatezza, generosità e spirito d’osservazione sarebbe stata una crudeltà. Lascia riflettere quanto lei si bastasse da sé, di quanto fosse per lei indispensabile condurre una vita apparentemente anonima e vuota e coltivare nel silenzio delle sue riflessioni una passione così dirompente. I suoi frequenti autoscatti mi danno l’idea di una donna consapevole, di una donna che vuole farci sapere di sé quanto basta, nulla di più, di un pudore smisurato per queste sue straordinarie creature, tanto da non pensare minimamente all’idea di esporle al pubblico o anche solo parlarne. È una donna forte, compiuta. Contrariamente a quanto si immagini, Vivian Maier non ha bisogno del riscontro altrui per riconoscersi, non saprebbe davvero cosa significhi il desiderio che oggi condividiamo tutti di ricevere più like possibili su una nostra foto pubblicata sul web. A lei tutto ciò non serviva. A beffa di un atteggiamento e di uno stile di vita che potevano relegarla in un ruolo al margine, lei era invece assolutamente al di sopra e piena, colma di sé, di quel “sé” pulito che nulla vuole prevaricare sull’altro ma che tenta piuttosto di condurre la propria esistenza seguendo un iter suo, sdoganandosi da un prestampato imposto e per tutti uguale. Vivian guardava. Si guardava, certo, ma prevalentemente guardava, osservava al di fuori di ciò che era lei. E documentava tutto, fino all’ultimo dettaglio, di continuo.
http://www.brainpickings.org/2013/11/26/vivian-maier-self-portraits-book/
http://www.brainpickings.org/2013/11/26/vivian-maier-self-portraits-book/
http://www.brainpickings.org/2013/11/26/vivian-maier-self-portraits-book/
La considerazione che a me viene più spontanea è quella riferita al suo talento. In un’epoca nella quale la pellicola aveva un costo rilevante e le apparecchiature non erano così a buon mercato, dedicarsi alla fotografia con una passione così prepotente e forte, era chiaramente qualcosa di poco comune, come poche erano le probabilità che il risultato di ore di intensa osservazione fossero poi ripagate degnamente da risultati interessanti. Parliamo qui di macchine fotografiche che non fornivano alcuna anteprima, che non garantivano alcun facile successo, che avevano probabilmente un uso meno semplice o un peso specifico consistente, ed erano sprovviste di filtri ed effetti. Parliamo della fotografia per come dovrebbe essere. Senza nulla togliere al presente e alle evoluzioni in tal senso che ci hanno portato ad essere tutti degli apprendisti fotografi, è innegabile che è qui che si riconosce un talento per quello che rappresenta, non c’è neppure bisogno che lo metta in evidenza. Ed è altrettanto ovvio che oggi è del tutto improponibile tornare indietro e non far più uso di quegli strumenti che ormai ci sono indispensabili. Ciò che però trapela da queste foto e che possiamo perseguire nel tempo è l’intenzione, un discorso anche solo sussurrato, una rivelazione di noi stessi o più semplicemente un occhio capace di dare visibilità all’invisibile. Le tecniche sono imprescindibili e si possono apprendere, se ne abbiamo una forte propensione. Ma il cuore è proprio, è ciò che fa la differenza, è quello che ci porta a scegliere un soggetto impopolare, scomodo, apparentemente meno accattivante e a tirar fuori un capolavoro.
Le mie sono chiaramente delle considerazioni del tutto personali: non posso parlare di fotografia in senso ampio, non sono una fotografa e mi sento talmente un essere insignificante in questo ambito da farmi mille autocritiche (da psicanalisi, quasi) ogni volta che scatto una foto e decido di non cestinarla. Non parla una me che vuole impartire lezioni su cosa sia giusto o no compiere quando si è dietro un obiettivo. Semplicemente, parla una me che si emoziona con lo sguardo, che non può sentenziare su cosa sia una sovraesposizione né su cosa rappresenti una corretta veduta d’insieme ma che è in grado di ascoltare quello che un’immagine vuole prepotentemente comunicare. E quando la comunicazione sconvolge, rapisce, disarma, è lì che si è compiuto il vero miracolo.
Da Vivian Maier dovremmo inoltre imparare ad abbandonare la perenne idea che ci debba essere sempre un riscontro, che si debba condividere a tutti i costi qualsiasi cosa, che si stia intraprendendo il percorso corretto solo e unicamente se supportato da un numero cospicuo di ammiratori. Per carità, non dico che tutto questo non abbia la benché minima importanza ma ritengo che non possa rappresentare la spinta unica a fare, il motore principale che aziona le nostre idee, lo scopo finale che muove la nostra creatività. Penso che si debba imparare a riconoscersi da soli in ciò che si fa, a pensare alle forme di espressione che più ci rappresentano come ad un pretesto per osservare la realtà che ci circonda e apprendere sempre più cose, piuttosto che ad un mezzo per accrescere un consenso altrui che è mutabile, fatuo, incline ai cambiamenti di stile e pensiero e che spesso ci condiziona e ci investe di sconforto. Molto difficile, è chiaro. Per questo sono certissima che Vivian Maier fosse una straordinaria donna, una donna che ha lasciato dietro di sé un mistero che avrebbe di sicuro preferito risultasse incompiuto, che si è presa gioco della società e del buon pensiero americano dell’epoca, che non ha messo d’accordo nessuno sul suo conto, neppure per quanto riguarda i suoi dati anagrafici (era solita inventarsi nomi di fantasia) o la sua cittadinanza. Che conduceva una vita apparentemente comune ma covava dentro il fuoco cocente di una passione che era tutta per sé, solo per sé. Senza bisogno di parere alcuno.
http://instagramers.com/spanish/vivian-maier-street-photographer-una-exposicion-unica-en-valladolid/
http://www.bigplastichead.com/2009/11/vivian-maier-her-discovered-work/
http://www.jeudepaume.org/index.php?page=article&idArt=2035